Spiragli


Dunque Klaus giunse alla vetta; 
volle terra e acqua per quella notte 
ma senza accorgersene vi arrivò solo: 
la sua donna si era persa 
in un labirinto di carta; 
gli amici trovarono scuse 
o non ebbero abbastanza fiato; 
gli invitati lungo il cammino 
assentirono con tutta la testa 
ma tenendo ben ferme le gambe 
per molte ragioni
                          Aspettò una lunga sera
e porgendo l’orecchio non udì nessuna voce amica: 
solo il lontano urto del mare contro la scogliera
                        Quando il buio conquistò la luce
            si decise dicendosi che era tempo; 
e per fare ciò che promise 
e per vincere la sua tristezza 
prese il flauto e soffiò: 
una musica sincera riempì la valle
nella sua bocca
perline di parole in docili combinazioni 
crearono un’eco negli orecchi 
dei pochi presenti occasionali
                        Per un attimo
fu felice della loro sorpresa
e fu lieto di scambiare i nomi 
ma la luna non illuminava 
nessun viso conosciuto
                                  Quelle cose 
le aveva composte per molti
— era il suo modo di donare —; 
per lei poi aveva consunto 
i più preziosi vocabolari
                                    A chi
dedicare dunque questa notte?
A chi la triste sete?
                            E il canto
a chi dispiegare il canto?
                                    Con chi
Signore con quale possibile persona dividere la gioia? 
La sua voce
no fu più così squillante 
nella canzone successiva 
Intanto gli si era fatta appresso 
una figlia di pescatori
a cui non insegnarono come nel Mare 
le reti vadano gettate 
e quanto le trame di desideri 
siano più fragili delle ambite prede; 
stette in silenzio ad ascoltare
ma poco capì così poco abituata alle parole
                   Quando finì
volle fargli compagnia
e dopo l’amore risero tutta una notte 
come non mai da molto tempo
                   Ridiscesero insieme la cima 
mentre lui suonava con una voglia nuova; 
volle dedicargli per quella notte 
tutta la sua musica tutte le sue parole 
anche se lei non valutò il gesto
benché capisse che era un pensiero gentile 
Nei crocchi
                 agli angoli delle strade 
nelle feste paesane
                            suonò
per tutti e per nessuno 
lesse a voce alta poesie
                   A chi dedicare dunque?
                              A chi dedicare?
A se stesso in definitiva
e a quella buffa ragazza che lo seguì per un pezzo 
e che non lo vide mai come un poeta 
ma come un desiderabile marito

Non che l’estate dei ghiaccioli
frutto di povertà
fosse solo la fiacca dell’incertezza
ma l’inedia dei pomeriggi appiccicosi
cullava come le onde di un pigroso mare
Non che il bagliore di fuoco
negli occhi delle lucertole
fosse solo l’odio antico della preda
ma i loro corpi squamati davanti a fionde omicide
nell’attesa di ogni varco erano giusto premio
alla stanchezza dei nostri fianchi
Non che fosse solo il sogno delle cicale
ossessivo in quella luce
ma allo sciabolio del sole liquefatto sul fieno
il loro fremito racchiuso nelle mani
era ancora l’estate animale della collina
che scoprivamo fra le fronde
nell’esplodere dei nidi
Non che il giocare dei colori
fosse delle orchidee
ma le timide margherite tiepide di verdi acquatici
cantavano discretamente in quei ripari
rubati a quegli immensi e luminosi cieli

Le rondini offrono
a un sole agonizzante
su isole moribonde
la languidezza dei voli
La maledizione dei secoli
sempre le ha portate
a sperare gli archi poderosi
giorni dopo giorni dove l’occhio
più lontano vede e più lontano vuole

Saranno sempre ali di Icaro
quelle che vorranno l’universo
Ed eccoli i girasoli: dopo aver cercato
di legare ai raggi l’oro dei capelli
perduti in un sospiro lungo come uno spasimo
sconfitti riversano come i capi degli impiccati

Così noi:
dopo aver cercato un lungo Giorno
in un urlo impossibile il profumo più falso
dimentichi di essere noi nati già sconfitti

Il suo braccio ruotò nell’aria 
disegnando un cigno di nuvola 
Sulla scia del suo respiro 
scalpicciarono cavalli bruni
che divorati da una forza interiore 
ruppero nelle colline
                              Dovunque
i loro fianchi toccassero
— roccia arbusto o chioma — 
rendevano scuri 
e foglie alitate
dallo sforzo delle loro froge 
diventavano arsure ubriache di sangue; 
si aprivano fra gli zoccoli 
se battevano solidi
regni di muschi
e stormi di sparagine
che offrivano le loro polle
e se il suolo il sudore gocciava
gonfie venature radici d’acqua esplodevano
                                                      Intanto
lei muoveva scrupolosa 
con passo misurato e antico 
mentre l’orlo della sua gonna
rendeva la terra tumida frusciando
                                                    Lanciò
uno sguardo di rubino sul pelo del lago 
che rimbalzò fin sopra l’orizzonte 
diventandone il sole
                              Non so
se fu la sua voce che scaturì agli ulivi 
grappoli di fringuelli
                              ma vedendoli 
sperduti per l’errore
un suo sorriso li tramutò all’istante 
in goffi tordi grassi come oche 
a cui diede la sua bocca contadina 
con un colpo breve di tosse 
appetitose bacche
                           Finì
la nuova acconciatura 
verso il Pomeriggio
ritoccando qua e là l’imperfetto 
come farebbe una perfetta signora
Infine calcando in capo una corona di vendemmie 
si mise in cammino lasciandosi alle spalle 
un silenzio chiuso;
poi aprendo il suo ombrellino viola 
cadde una pioggia mesta 
E fu tutto

È sempre la pioggia pronta a suonare
il suo magico tam-tam di pensieri
a gettare nel suo maliante umore acquatico 
il mio passo più mesto: la terra raccolta 
in un muto cappotto di silenzi 
Si leva l’antico odore di fieno 
e rinnova la stalla verde muschio
dove un bimbo vagabondo dall’anima lattea 
canta la filastrocca e carezza l’animale…

               Il possente dio del tuono scagliava lampi
               e lui sussultava ancora umido di sogni nella notte 
               e pregava che non riuscisse un vento bellicoso 
               a ficcare le sue mani nelle imposte 
               La grigia coperta militare
               e lenzuola non troppo spesso bianche 
               erano davvero grembo ritrovato 
               dopo il precoce abbandono
               e caldo rifugio quando gli occhi diventavano 
               verdi fessure ombrose

               La solita finestra piovata lo trovava
               spesso ad aspettare il Bianco Vecchio Canuto: 
               quello che trascinava le stagioni 
               O forse era lo Zio Americano 
               che l’avrebbe strappato allo stretto camino; 
               della seggiola vuota nei giorni di freddo 
               uno dei Fratelli l’avrebbe raccontato:
               se n’era andato con l’improvviso Parente 
               oltre lo sconosciuto ventaglio dei monti 
               Le foglie degli ulivi – ostriche d’aria – 
               offrivano mari di perle che scintillavano 
               al primo tintinnare del sole 
               e lui — il bimbo — che di tesori fertili 
               godeva solo l’illusione delle favole 
               si divertiva a farne acqua
               scrollandone i rami e gocciandosi addosso…

Scuote una frustata di tuono 
la culla dei ricordi
lo spartito cambia e diventa temporale 
Mille mani nascoste sembrano applaudire 
la mia improvvisa corsa 
e il sangue pulsa braccato dal respiro:
la pioggia e l’anima – forse non sembra – 
hanno lo stesso ritmo
e anche adesso si tendono la mano

Quando il corpo di mio padre
decise di non soffrire
e l’anima l’accontentò
se ne andò in un giorno qualunque
senza preavviso particolare
con l’angoscia della mia presenza
e nel barlume dei suoi occhi
la speranza di un incontro
Gli occhi di mia nonna
ammuffiti da un pianto precedente
non tentarono nemmeno di brillare
e così tutta la casa ammutolì: giacché
se una prima disgrazia genera convulsioni
lacrime e grida di meraviglia
una seconda lascia sgomenti di dolore
e privi di un accettabile perché
Il suo funerale quindi fu
penosamente più silenzioso del primo
Nella casa quasi chiesa
nessuno riuscì a sorridere
quando il prete soccorrendo la sua stessa voce
finì con un qualcosa: “Abbiate fede sarò la vostra vita”…

La Nera Vendemmia
mi fu sempre presente in seguito
ben scandita dal suono delle campane
e mi trovai spesso al primo posto
facendone il coro ai Requiem
Nel Parco di annegati sul mare della terra
il richiamo era ben alto alle mie orecchie:
gli specchi del passato offrivano soltanto
identità di ferro legno marmo
o dura pietra scolpita;
solo questo
o qualcos’altro di endici ragnateluti;
eppure su questo effimero
ma pur sempre presente
ognuno proseguiva nel suo Nulla
Io zitto guardavo le date
e sedevo spettatore alle loro preghiere
ma mai chiesi il nome e ciò che segnò
mio padre e mia madre: intanto
i crisantemi profumavano domande

Il mio cuore costruì il futuro
in assenza del passato
e il passato sui suoi stessi giorni
Raschiò lungo muri anemici
dai cuori chierichetti
e dall’incenso delle benedizioni
le maledizioni del crescere
Un giorno finalmente esplosi
sebbene la scusa era lontana:
«Ma e il nome di mio padre
e quello di mia madre, sai che non li so;
me li hanno chiesti a scuola nonna
E lui era alto e forte e mia madre com’era? »
Saltarono fuori da un vecchio e sacro cassetto
e dal grembo quieto di mia nonna
tutti i ricordi insieme a gialle fotografie:
considerò che la mia età era buona
per il rimpianto
mentre un oscuro filo
veniva ricongiunto sulla terra
«Bello mio padre mi somiglia»
Mia madre è brutta
lo pensai ma non lo dissi
— credevo fosse una Madonna
come sognavo ogni dolce madre —
E in seguito piegai il suo ritratto
senza che nessuno potesse capire
Infine ho assopito la mia santa voglia:
il futuro mi riprendeva
Ed è proprio strano dopo tanti anni
che in un giorno di primavera
così lontano dalla loro stagione
affacciato alla finestra mentre tutto rinasce
io li ricordi

Vedi amore
se non decidi ci saranno giorni
in cui umilierò la tua voglia o la tua grazia
e dimenticherò o ne parlerò con sereno ricordo
di un momento uguale
Adesso usi il mio corpo come rifugio
e io mi sento la tua scorza
mentre il tuo pianto denuda il tuo problema;
mentre le mie dita percorrono il tuo grembo
e guardo il tuo gesto del mio regalo di pratoline
che hai messo al fresco in un portauovo
Ma non devi continuamente
piegarmi e poi rialzare:
te l’ho già detto mille volte amore
che un ferro nel suo punto focale
cerca di resistere ma cede infine
Non fendere il mio petto
col tuo petto di cormorano
con la stessa dolcezza con cui fendi l’aria
per poi usare ogni odio fra le piume
e sconvolgermi
Io sono io
e tutti gli altri che vedi in me
non li conosco;
fosse possibile questo mio sesso
lo trasformerei in un fiore per offrirtelo
e poi svelandoti il mistero te lo direi:
Bene amore
Da domani si ricomincia

La luna mi offre un piatto
e uno specchio avvilito
Rifletto sfluito
i miei pensieri
La donna che amo
l’ho persa:
che m’ispiri lei una donna
su cui annidare e miei semi
rimasti infecondi

Ciao!
Ricordi la traccia gialla
— ponte del nostro fiume —
dove contammo residui di bottiglie
e gli strani relitti del suo dorso
parlando di uccelli morti e pesci castigati senza colpa? 
Io guardavo sul greto
         i cellòfane sospesi ai rami
                  e sventolanti al vento
                           come gli assurdi fazzoletti di un addio

Mi cercavi un lenimento
          in quella fredda mattina
                    che il sole non vinceva
                                                     Ho ancora 
i filari in cammino preda della rugiada
dimessi ma pronti nell’attesa: 
mi appoggiavo alla loro favola 
dicendomi che sarei rinato
                                      ma eri tu
                     il gran sostegno
— profumo di viola e riso maturo —
con cui cercavo di evitare l’affanno 
di una bocca viva
che ancora troppo desideravo:
rivedo il tuo seno sostenuto dal respiro
e mi chiedo quanto le tue coscie 
fossero disponibili

Hai preso un posto considerevole 
in ogni musica cullante
                                 che ora ascolto
mentre mangio distrattamente 
Il sacchettino dei tuoi regali 
nella piazza più bella 
fa parte del suo cielo; 
il muschio
               spesso
                         ne copre
                                      la memoria
ma già ogni Natale lo sconfigge 
e ora ne osservo il contenuto 
come un dono rinnovato
                                    E
non posso fare a meno di pensare 
mentre la calma si fa desiderio 
se ti avrei offeso
o quanto le tue coscie sarebbero state disponibili

E adesso andiamo per strade lattiginose
lungo una sera invernale
In fondo non importa dove
ed è quasi come andare nei vicoli
di quel fumetto che mi coinvolse troppo
fischiando una canzone
Ho perso il conto di quando ti abbia conosciuta
di quando ti abbia persa e ritrovata
ma quella sensazione che così doveva andare
dolorosamente tutto succedere e cadere
ha spezzato i denti del rancore
trovandoci aggrappati sul cuscino
sconvolti dopo il cieco nubifragio
Ho avuto pochi spiccioli di stelle ultimamente
sebbene il cuore tumultuasse nascoste verità
e una sfrenata voglia di qualcosa di importante
che superasse ogni ragione
e anche te col suo destino
Ma adesso che indugiamo lungo il fiume
e mi spoglio della rabbia e da bestemmie
con cui avevo la terribile intenzione
di trafiggerti — farfalla con lo spillo —
rifletto avrei trafitto per orgoglio
il mio stesso cuore:
questa parte «troppo centrale»
che non la vuole smettere in fondo
troppo in fondo alla radice del cervello
di volerti bene
E se domani mi riproporrai
esplosioni di fiamma o vacuità di lagune
e io troverò per i tuoi giunchi
catene di disprezzo e chiodi per le tue mani
accettiamoli perché in fondo
troppo in fondo alla radice del nostro mondo
sono odiosi amati fiori figli del nostro amore.

Scossa dall’asma
la campagna in brividi 
respira bianchi aliti; 
un cuore tossisce
sotto il suo verde cappotto 
che stringe benvolentieri 
Qui sul nostro treno 
— uno dei tanti —
osservo comporsi e scomporsi 
antichi quadri
in milioni di prospettive: 
osservassi allo stesso modo
con l’occhio obliquo del distacco 
la vita!
                                          E invece 
la mia schiena che racchiude
la curva della canoa
e le mie reni suoi possenti fianchi
troppo a lungo non vinceranno le correnti 
votate a coinvolgerci
                               Sul mio costato
una falla perde vita e più non so 
se riuscirò a varcare lontane porte 
divelgere duri chiavistelli
Dormi serena
sulla spalla che ti offro:
del tuo destino mi faccio carico 
e tu del mio:
                  mi ricordi
quel vecchio pupazzetto 
a cui davo pensieri
— tu carica di sogni e di parole —
ora che serena dormi 
cullata dal treno

La nostra prossima Stazione
la immagino come un segno 
ancorato nella nebbia 
che il mio occhio miope 
non riesce a comporre bene: 
di quale catasta di traversine 
faremo parte?
Di quelle che aspettano il loro uso 
o di quelle già in disuso 
pronte come legna da ardere?

E cosa dovresti fare
quando neanche le parole
possono bastarti
e la bestia del tuo cervello
non ha donne su cui fottere
i tuoi Sistemi Cardinali
E pensi che basterebbe
sprecare la tua fatica
su un’immagine di saliva
e umori leccati
e poi dormire soddischifato
sicuro che il ragno del tuo petto
rimanga a questo piano?
Conoscono i corvi che gracchiano
allo squittio dei tuoi nervi
le oscure vie che conducono
dal giorno alla notte:
peregrinando in cunicoli bacillari
fra le zolle imperturbabili dei muschi
raschiando l’angoscia dei tuoi ricoveri
prenderebbero lucciole mercenarie
per seguirti: dalla veglia al tuo sonno
Quindi cosa dovresti fare
se il tuo vocabolario non contiene
la domanda che ti opprime
E mentre il soffio del tuo tedio
rotola sopra i vetri
ripeti quasi fosse un vizio ingrato
Che cosa dovresti fare?

La gente disillude il sogno
prima del duro lavoro:
scuote il torpore dai letti
e il tiepido dei cuscini
brancolando un coraggio
per levare le ossa
Il Giorno puntuale come sempre
va su e giù per la strada e ti attende
respirando il fresco del mattino;
imperturbabile e più per vizio
osserva con una alzata di ciglio
il suo Orologio
Per te c’è ancora
il Rosario meccanico dei gesti
e il cappuccino finale
non riesce più a scaldarti;
consente l’ingorgo dei pensieri
solo frasi smozzicate
nelle bocche ancora sporche di sonno
La notte ha smesso il suo sbadiglio;
tu devi smettere il tuo
e spezzare gli strascichi
a forza o a ragione nell’ora di andare
Aprendo la tua porta infine
la chiudi definitivamente al sonno
e il Giorno perennemente sicuro
ti tende la mano incontro
Ma non puoi fare a meno di osservargli
prima che ti prenda a braccetto
senza concederti più indugio
oltre al buon taglio del vestito autunnale
che sul suo viso non è rimasto niente
del vostro vecchio incontro
mentre tu osservi come sempre sullo specchio
il suo saluto quotidiano

Con occhi di mercurio
e l’offesa millenaria nella pelle
il vecchio di molte lune
non chiede la carità:
giacché la questua diventa mestiere
con tutta la sua dovuta esperienza
lui ti chiede solamente
una goccia — lungo il giorno —
per la sopravvivenza dell’ora
E se il tuo nervo metallizzato
gli offrirà due sigarette
ripeterà deciso «una»:
l’altra è di troppo
Non so se conosca
misteri sottomarini
sebbene i suoi occhi
non li precludano
ma di certo racchiudono
il passo delle lucertole
le favole dei tordi
la follia delle cicale
e il sapore muschiato sulle polle:
un suo sguardo precede sempre
il fiorire della stagione
Questa pioggia poco ospitale
che incide sul moto quotidiano della gente
percorre la sua persona
più che tranquilla verso un portone:
a lungo ha vissuto fra le piogge
per affrettare il tempo
E d’altronde sono proprio
Piogge Stellari
che spesso l’hanno sottratto
al naufragio perfetto dei minuti
E si trova a ripetere
in questo aspettare che non è attesa
la sua solita preghiera
«Quando il cuore non sosterrà
il mio passo più che normale
e il suo moto sarà contrario
alla mia direzione
voglia quell’Aurora che mi ha voluto
abbandonarmi non nella nicchia
più remota della città
ma riesca
e le unghie lo tenteranno
a raggiungere il verde cuore della terra
E ti prego Antica Madre
con le tue Radici Oscure
trovati il tempo di sottrarmi
agli occhi dei miei simili»

Evita bambina
il corvo dall’ala bruciata
non guardare troppo a lungo
nel suo occhio a spirale
La sua voce impostata
come ninnoli natalizi
ti tratterà da donna
ma è la preda con occhi illibati
che sa di contenere
nel suo taccuino blu

Evita bambina
il fiato del suo mondo:
non è rugiada quella che sprigiona:
sebbene abbia seguito
lezioni di Pierrot
è il suono che commenta
la moneta buona dalla falsa
Non aprire gli occhi a metà
poiché la solitudine lo vuole:
capirai tranquillamente
che il racconto sul suo incidente
ha tutta un’altra versione
nella casa delle streghe
Quindi evita
evita ti prego
il corvo dall’ala bruciata:
balbetta polle di sorgente
ma è il rigagnolo del rimorso
che ti incide nelle vene
fino al centro del cuore

Il bimbo fu rubato agli angeli
e l’aurora dell’universo
si fece coraggio
per non fuggire dai suoi occhi
e affrontare il Giorno,
La puerpera sorrise
il suo sorriso unico
e usò la dolcezza più perversa
per accostarselo in grembo
facendone ovatta
Cercò alle sue mammelle
il sapore della rugiada
e si sentì completamente madre
sentendole gonfie di vita
Negli occhi acquatici del bimbo
indulgevano ancora tremiti d’ali
ma già nel suo sguardo si leggeva
l’assente musica del Nulla:
quel suono senza suono irripetibile
che cullava compagnia nel Lago
Per questo la madre ebbe un brivido
cosciente di quella grazia linfatica
ch’era stata anche sua un tempo
Tremò al pensiero degli anni belli
e tremò per lui; quindi se lo strinse
di più in petto quasi a proteggergli
quei cuccioli di minuti fragili e ribelli
e quel soffio d’infinito dentro agli occhi
che sarebbero svaniti con l’età

E anche l’ultima si è sposata
È difficile ricondire le minestre
con la nuova solitudine
mentre tua moglie ancora piange
la festa di ieri:
in due è più facile partire
ma l’arrivo di nuovo soli
è l’amaro che ha scacciato via
il dolce alla fragola con l’ultimo saluto
Un giorno dopo l’altro
con l’augurio più sincero dell’anno nuovo
la ruggine del vecchio ti ha corroso
ed è inutile giocare a nascondino
con gli specchi nell’evitare le rughe;
al massimo puoi farlo
col bianco dei tuoi capelli
contando a piacimento gli anni a ritroso
per poi scovare i ricordi
Ripensi al vivo pianto di tua figlia
a quel tanto ch’era di gioia
e al resto che voleva trattenere
molto di ciò che lasciava
nella sua camera fiorita:
ridi della bambola che s’è portata via
per ingannare la coscienza
Adesso la vedrà
e si vedrà saltuariamente coi fratelli;,’
giusto all’occasione eccezionale:
compleanni nascite morti
e via via più raramente
com’è successo a te stesso:
ti senti per la prima volta offeso
di questa giostra banale
Ricercherai come per gioco
lettere ingiallite
osserverai il bollo di alcune cartoline
perse in qualche perso scaffale;
troverai con un luttuoso ricordino
un brivido sepolto afferrando che ormai
anche nel tuo giro si muore
D’altronde già inizi a tappare
i lunghi minuti vuoti
con feroci partite a carte
consolandoti delle vincite a scopone
cosciente di aver perso partite più importanti
Giochi e sempre più giocherai le domeniche
e via via i giorni più feriali
nel verde dei giardini pubblici;
ti domanderai ancora se il senso
e tutto quello che ti rimane
è rivedere un bimbo che suona la sua trombetta

                    Nei mattini turgidi 
            oppresso dalle notti insonni 
nelle sere bisbiglianti
                               contro i mari in guerra
                   scrutando gli orizzonti 
mordendo la rossa arancia dei tramonti 
sulle vette ardenti
                          fra i pendii quieti 
osservando la rassegnazione dei giunchi 
la compostezza dei graniti
l’indifferenza degli animali al suo passaggio 
ho cercato una definizione
                                                                    Il Tempo è…
Colonnine d’alabastro dischi dorati 
lancette nobili pendoli a lira 
sonori uccellini meccanici
                                      magici carillon 
statiche ballerine da falsariga
ori sonaglini argentei
                              ricchi smalti 
intarsiati ebani bruni
                             cesellati contrappesi 
mietitori del raccolto invisibile
Quadranti tondi
                       ovali
                              quadrati
con numeri
                 senza
                         scuri
a corda
           a batteria
                         a quarzo
                                      atomici
sconfiggitori degli astri 
Capace Big Ben
                        e tutti i B.B. del mondo
fino al mio paese
Tutto serve per rendere benevolo
l’unico Essere che passa nei diversi misuratori; 
anche sulla cipolla di papà 
e sul mio che non si fa sentire
                                                                    Il Tempo è…
Passiamo in rassegna i ricordi 
almeno così saprò che ho vissuto…
                                                     Muri
azzurro-incrostato di macchie e d’umido: 
stanza francescana odor di cipolla 
a parte gli animali alla catena 
e le galline per qualche uovo
                                          «Dio sia lodato»
Come facevano deriva
i vecchi tetti in canne e fuliggine 
e tutti quei santini di Gesù
                                       santa Lucia
                   la Sacra Vergine
E la rassegna di gialle fotografie
sui comò dai poveri specchi ben puliti 
(unico debole decoro)
                                 fra fiaccole e lumicini
fiori appassiti
                    o scoloriti nastrini di guerra: 
spiavano alle cornici
giovani soldatini vigorosi nella loro divisa
                       «E qustu chi est(e)?» 
«Babbu meu e qusta è(r) mamma mia 
qustu invetze é(r) fitzu meu 
Mortu isse puru»
                             E l’invasione del «purtroppo» 
che invadeva per un attimo le sopraciglia 
del prete benedicente quella casa d’avanlete
                    «E qustu è(r) maridu ostru? » 
«Ehi. Bon’anima!
Si ch’est(e) andadu male ch’in tottu sos malannos(o)»
                    «Ma teniada medas annos(o)? » 
« Eh! Za n’de teniada sischureddhu»
                   « Itte bi cherides fagher(e) 
pregamus(u) su Signore pro onzi peccadore 
Za l’ischides(e) coment(e) è(st) su tempusu! ».
                                                                     Il Tempo è…
Ho sempre sentito le scapole 
come una privazione d’ali
                                      Il Suo castigo orribile
                                      più di ogni altra punizione!
                                      Se
avessi potuto attraversare 
come un uccello lunatico
qualsiasi scontroso Oceano
                                         volteggiare sulle spume
poi protendere alle foreste ed annusare 
la sua coltre umosa di secoli
                                          o calpestare
come l’aquila una cima
riducendo tutto a minuscole proporzioni 
Non sazio risalire
       fiumi di vento contrario
              precipitare poi in vertigine;
                      resterei così stordito
                             da entrare come in sogno
                                    nella sua statica dimensione
                                                                    Il Tempo è…
Il tempo mi ha riempito tutto 
come la parte bassa della clessidra
                                                           Non ho più 
un «buongiorno» o un «buonasera»
«addomani» o un «arrivederci»
                                                    oppure
«buonpranzo»
                         Via di seguito anche
il buon libro il cappuccino la noia la poesia 
la fiala per capelli il vestito la maria 
la lettera lo studio l’amico la patente
la protesi un partito l’affare più importante 
la cartomante del «ti prego svelami il futuro» 
E ancora
un viaggio molto atteso:
                                    il Viaggio si fermerà
sul mio caro letto
dove mia moglie ho seminato
come un fertile campo ne ho raccolto il frutto 
e già per dare vita egli matura 
e spodestare me dal bianco orto 
Aspetto il rantolo
che mi porterà nella Clessidra
al cospetto del Totem di diaspro e tormalina

Oltre il pannello d’acciaio
dove una Macchina Calcolatrice
conteggia e archivia il tuo totale
                                                                  Il Tempo è…
C’è che il tempo è un’esalazione perpetua 
e corrompe il tuo fiato fino alla radice

C’è che qualcuno ne spartisce la misura 
in maniera costante secondo la specie: 
dalla pianta al battere
                               dalla cellula all’animale,
C’è che lo osserviamo costantemente sugli specchi 
ma non ne vediamo mai la faccia

«Anche il vento invisibile devasta i campi 
così lui i nostri corpi» 
C’è che il vento ha una spiegazione:
lui gioca a nascondino con gli occhi dei poeti 
e c’è che ho detto solo il lato corto 
di tutta la verità
                                                                  Il Tempo è…
Da Oriente a Occidente
nella caduta del quietante sole 
ogni Lode perpetua sale
Ogni popolo osserva le sue reliquie
e il suo Dio remoto;
chiede il perché dell’infinito e delle cose 
del mio e del loro irriducibile mistero 
che risponde con un silenzio-vertigine 
da spezzare
                    Coi nostri canti le musiche le lodi 
confondiamo la sua caduta nello stagnante Lago 
come goccie di rubinetto nel catino
                                                                  Il Tempo è…
Schiacciato dal cielo
                               ostruito dalla terra 
conservo la recita delle quattro stagioni: 
La morbosa Primavera che fiorisce
il verde dei campi e il giardino della città
le frotte di pratoline e le frusce dei davanzali, 
Che corrompe col suo alito benedetto 
ogni cielo malato
ogni animo curvato dalla vecchia stagione; 
getta il suo seme pruriginoso 
in ogni sano ventre
                            L’Estate matura di messi
che prepara frutti offuscati dalla luce
e nidiate di animali a calpestare il mondo:
ognuno saprà il raccolto che sarà
                   Si affaccia fin troppo lentamente
l’Autunno carico di lanuggine e sapori 
certo di certezze
                        privo di sogni e di follia
denso d’attesa
                     nitido come i mattini tersi
Contiamo la nostra vendemmia per il tempo che verrà
Vieni fin troppo stancamente
       fin troppo duro e inevitabile
              lungo Inverno che conosciamo
                                                            Accovaccia
tutti al loro fuoco
stringili nel caldo dei ripari
a spulciare ricordi di ricche ghiande 
e floride ginestre in cui sostarono
                             Ciò che hai partorito 
lentamente si evolve
                              diventa solido e sicuro
ciò che partorirai.
I deboli reclinano il capo e restano sconfitti
                                 Alberi!
       Di ricoprirvi di tempo e delle 4 stagioni
                     ogni anno per tanti anni
        è un’invidia che io conosco
                                    Conosco anche
la mia unica e cullante Primavera
                     la mia Estate sicura 
l’Autunno che corruga la sua fronte: 
dell’Inverno non avrò paura
                                                                  Il Tempo è…
Proseguire ad libitum e poi sommare

Il Tempo è… +
Il Tempo è… + 
Il Tempo è… +
Il Tempo è… + 
Il Tempo è… +
Il Tempo è… + 
Il Tempo è… =
—————————
Il Tempo
               è una poesia più o meno riuscita 
               in ogni caso tutta la vita;
              della sua angoscia che ben conosciamo 
              forse va meglio se ce ne freghiamo 
              Se voi volete ridetemi addosso 
              ma sono stufo di fare un gran chiasso 
              ogni qualvolta il mio pergolato 
              non riesce a fare un frutto perfetto 
              Se il tempo vola come gli uccelli 
              da qualche parte faremo i calli 
              D’altronde Lorenzo lo disse già bene 
              anche se i tempi sono molto lontani 
              e non sono certo altrettanto sereni

                                 Quant’è bella giovinezza 
                                 che si fugge tuttavia! 
                                Chi vuol esser lieto, sia: 
                                di doman non c’è certezza

Se poi c’è qualcuno che farà un polverone 
su questa inattesa ritrattazione 
per poter evitare qualsiasi tenzone 
vi spiego ch’è l’Arte della pia illusione